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Donatori di sangue e plasma al tempo del coronavirus

di Danila Bassetti*

Il ruolo fondamentale dei donatori di sangue e delle loro associazioni si conferma anche in questi giorni di pandemia COVID-19, non solo in quanto fonte degli emocomponenti, insostituibili presidi sanitari, ma anche come matrice di possibilità terapeutica specifica derivante dalla somministrazione di plasma iperimmune. Come già espresso nel precedente articolo comparso nel numero 1-2/2019 di Rene & Salute, il plasma è la componente liquida del sangue attraverso cui piastrine, globuli rossi e globuli bianchi vengono trasportati in tutto il corpo. Separando dal sangue intero queste tre componenti, si ottiene un liquido giallo costituito in prevalenza da acqua e da altre sostanze, tra cui le proteine.

Il plasma può essere ottenuto nel processo di raccolta dal donatore sia tramite separazione del sangue intero sia tramite procedure di aferesi produttiva. Esso costituisce la materia prima per la produzione, attraverso processi di separazione e frazionamento industriale, di medicinali plasmaderivati, alcuni dei quali rappresentano veri e propri farmaci “salva-vita”.

Le proteine plasmatiche vengono isolate attraverso un processo chiamato “frazionamento” e prendono il nome di plasmaderivati: essi sono rappresentati dall’albumina, proteina indispensabile per le funzioni renali, dall’antitrombina, dai fattori della coagulazione, essenziali per una corretta coagulazione del sangue e dalle immunoglobuline o Ig, anticorpi prodotti dal sistema immunitario per la difesa da agenti esterni come virus e batteri. Di base le immunoglobuline sono utilizzate nella terapia sostitutiva delle immunodeficienze e nel trattamento di patologie autoimmuni o di processi infiammatori sistemici. Il plasma può costituire anche una risposta specifica verso batteri e virus quando sia raccolto da donatori venuti a contatto con gli stessi e che abbiano sviluppato anticorpi neutralizzanti i patogeni medesimi.

Su questi principi si basa la sieroterapia utilizzante plasma e siero iperimmune per la cura di specifiche infezioni e anche nell’attuale pandemia di COVID-19 essa rappresenta un’arma d’emergenza in attesa di protocolli terapeutici consolidati e del vaccino per il nuovo Coronavirus. La terapia legata all’uso del plasma da convalescenti/guariti è attualmente al centro dell’attenzione mediatica ed è quella su cui molti ricercatori puntano nel breve e medio termine per arginare l’impatto del Coronavirus.

In realtà non si tratta di un nuovo approccio terapeutico poiché i primi tentativi di neutralizzare una malattia attraverso delle infusioni di sangue e plasma sono stati effettuati sugli animali nel 1890. I primi ad avere sperimentato l’utilizzo del sangue contenente gli anticorpi della malattia su animali sani, che venivano esposti al contagio, furono il fisiologo tedesco Emil Von Behring, premio Nobel 1901 per la Medicina con la scoperta della cura per la difterite e il batteriologo giapponese Kitasato Shibasaburō. Essi nel 1880 avviarono due progetti gemelli con i quali infondevano il plasma con anticorpi negli animali, l’uno per la cura del tetano e l’altro per la difterite. Negli esperimenti iniettarono in topi sani il siero dei conigli immunizzati alla malattia, dimostrando l’efficacia della sieroterapia. In tal modo ci si rese conto che per ogni singola patologia era necessario un plasma contenente gli anticorpi capaci di contrastare lo specifico patogeno. La prima importante applicazione sull’uomo avvenne durante l’epidemia di spagnola nel 1918, la più grande pandemia della storia, che ha coinvolto il 30% della popolazione mondiale e causato ben 60-100 milioni di decessi; per confronto si precisa che la Prima Guerra Mondiale determinò 18 milioni di morti, la Seconda 60 milioni. Le immunoglobuline sono state poi usate per la scarlattina, il morbillo, la pertosse, fino ai recenti utilizzi per la SARS, MERS, influenza aviaria H1N1, H5N1 ed Ebola, quale valido metodo di cura approvato dall’Organizzazione Mondiale della Sanità per il contenimento dell’infezione.

Con tali presupposti storici, vanno inquadrati i diversi protocolli di sperimentazione sull’uso di plasma iperimmune anche nella COVID-19, quale arma emergenziale in mancanza di farmaci efficaci e di vaccini. Oggi la terapia è sperimentata in oltre dieci Paesi nel mondo, tra cui l’Italia con l’esperienza pilota della Lombardia negli ospedali “San Matteo” di Pavia e “Carlo Poma” di Mantova.

Il reclutamento di donatori AVIS guariti dall’infezione COVID-19 ha consentito la raccolta del plasma richiesto, successivamente analizzato per qualità e sicurezza con la verifica della presenza degli anticorpi neutralizzanti il virus SARS-CoV-2 e successiva inattivazione virale. Non tutti i donatori guariti risultano idonei allo scopo o per basso numero di anticorpi o per qualità generale, tant’è che solo il 15-20% di essi può contribuire efficacemente alla lotta contro il COVID-19. Negli USA uno studio recente sotto la guida del prof. Steven Spitalnik della Columbia University di New York procede con tre approcci clinici: il primo in persone molto esposte all’infezione, come medici e infermieri, per prevenire il contagio, il secondo in pazienti con COVID-19 non grave per ostacolare la progressione della malattia, il terzo in pazienti in fin di vita come ultima speranza di salvezza, in America chiamata “Hail Mary” o “Ave Maria”.

Il protocollo di Pavia, ripreso anche dal Blood Alliance in Europa, prevede l’infusione di plasma iperimmune in pazienti in fase critica da distress respiratorio, intubati o ventilati meccanicamente, cercando di intervenire in fase precoce. I risultati preliminari sono incoraggianti e di stimolo per proseguire fiduciosi nello studio.

Altre prospettive future sono lo sviluppo di tecnologie in grado di estrarre le Ig specifiche per una loro somministrazione mirata al fine di evitare al paziente possibili sovraccarichi di volumi infusori da plasma intero e la produzione di Ig specifiche di derivazione industriale. Tutto quanto sopra esposto presuppone la disponibilità in quantità congrua di plasma, derivante in Italia, caso unico al mondo, da un atto di donazione quale gesto etico, volontario, gratuito, anonimo, organizzato e sicuro. La raccolta del plasma diviene quindi un fattore decisivo per affrontare nuove sfide sanitarie, come quella che stiamo vivendo. Occorre sensibilizzare maggiormente alla plasmaferesi per poter raggiungere l’autosufficienza anche per i prodotti plasmaderivati, provenienti attualmente per il 30% dall’Estero, soprattutto dagli USA, dove la raccolta non è gratuita e garantita da un’associazione. Conseguentemente, di fronte a eventi pandemici o comunque per altre dinamiche commerciali su scala mondiale, in Italia potremmo correre il rischio di carenze critiche nel loro approvvigionamento.

Spesso i donatori considerano la donazione del plasma meno importante di quella del sangue intero: bisogna ribadire che non esistono donazioni di serie A e di serie B. Donare il plasma è fondamentale quanto donare il sangue e, come asserisce il Presidente di AVIS nazionale, dott. Gianpietro Briola, “Se ogni centro trasfusionale facesse anche una sola plasmaferesi in più al giorno, nel giro di un anno raggiungeremmo l’autosufficienza!”.

*Dr.ssa Danila Bassetti
Direttore Sanitario Avis del Trentino

[Articolo contenuto in Rene&Salute Anno XXXV – Novembre 2020 – n. 1/2, pp. 7-8]