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Fantascienza in sala operatoria

di Andrea Scardigli*

Dottore, ma mi opererete ben con il robot vero? Mi farete il laser? Ma l’intervento non è in day hospital? (Prostatectomia radicale…). Ma devo stare ricoverato?

Queste sono alcune domande che ci vengono rivolte quotidianamente e più volte al giorno in ambulatorio, in reparto, al bar, ecc. quando si tratta di proporre ai pazienti delle procedure chirurgiche. Ormai sembra che se un chirurgo non si avvale di tecnologie fantascientifiche e ipertecnologiche, che al risveglio dall’anestesia dopo un lungo e complesso intervento ti permettano di andare a sciare o a fare una partita di calcetto con gli amici, la sua capacità e le sue conoscenze non valgano più di quelle del vicino di casa o del tanto abusato “Dr. Google”. Effettivamente, abbiamo contribuito anche noi stessi a creare questo alone di “meraviglia” intorno alle nuove tecnologie presenti nelle nostre sale operatorie, che senza dubbio hanno migliorato l’efficacia delle terapie, ma che certamente non si possono sostituire al sapere e alla tecnica di un buon medico.

Figura 1. Robot-assisted surgery in sala operatoria.

Comunque, negli ultimi anni, il primo posto nella “hit parade” delle tecnologie viene stabilmente occupato dalla chirurgia robotica, o, più precisamente, robot-assisted surgical technology, che senza dubbio ha rivoluzionato il mondo della chirurgia minimamente invasiva, e in particolare quello della chirurgia laparoscopica.

Ma entriamo più nel dettaglio. Già nel 1939 lo scrittore di fantascienza Isaac Asimov aveva immaginato un mondo popolato di robot umanoidi (o automi), capaci di aiutare e affiancare l’uomo in molte situazioni, senza mai però potervisi sostituire, e in rapporto di assoluta dipendenza (vedi “le leggi della robotica”); in seguito molti altri scrittori e sceneggiatori di fiction si immaginarono situazioni in cui veri simulacri robotici dell’uomo (o androidi) prendevano in vari modi il sopravvento sulla ragione umana, causando disastri e disgrazie di varia natura. Abbiamo poi tutti in mente il lucido e tenero Jack Haley, l’uomo di latta del Regno di Oz e il simpaticissimo e dolce C-3PO, e R2-C2, rispettivamente l’androide e il suo server di Guerre Stellari, partner inseparabili di Luke Skywalker nei vari episodi dell’immortale saga. Nella realtà niente è più lontano da questi personaggi dei robot attuali, presenti anche in molte delle nostre abitazioni, come ad esempio il “Bimby” Vorwerk Folletto, aggeggio gastronomico capace di cucinare elaborate pietanze in pochi minuti e senza l’intervento diretto del cuoco, o i vari aspirapolvere automatici capaci di distinguere un pelo del gatto da quello del cane e i meravigliosi dischi rasaerba che si ricaricano da soli e inseguono cocciuti nel giardino lo stesso gatto o cane di cui sopra.

I robot chirurgici, il cui primo e principale rappresentate presente su larga scala nelle sale operatorie di tutto il mondo è stato il da Vinci Si (Figura 2), considerato fin dal suo arrivo sul mercato nel 1999 il gold standard per le procedure di media complessità in campi chirurgici definiti, quali urologia, ginecologia e chirurgia generale, sono ormai entrati nell’utilizzo quotidiano, almeno nei centri più grandi, come il nostro amato Ospedale Santa Chiara, che se ne è dotato fin dal lontano 2012, con un volume di utilizzo notevole e forse addirittura superiore a centri altamente accreditati nel resto d’Italia.

Figura 2. Sistema chirurgico da Vinci.

Questa apparecchiatura, nata negli USA e sviluppata principalmente per permettere ai chirurghi dell’esercito di operare i militari feriti a distanza di migliaia di chilometri durante la campagna dell’Iraq, e successivamente diffusasi in quasi tutti i principali ospedali, consiste fondamentalmente in due distinte unità, la consolle di controllo e visione, formata da un visore 3D ad alta definizione, che dà al chirurgo l’impressione di trovarsi direttamente all’interno del campo operatorio, e da due manipoli ultrasensibili (tipo videogames) e una pedaliera, unità all’unità di servizio (o “carrello paziente”) da un cavo o da un collegamento wireless. La parte “operativa” del da Vinci (l’unità paziente) viene collegata al letto operatorio mediante una manovra detta “docking” (termine mediato dalla tecnologia spaziale che significa l’attracco di una navicella spaziale alla stazione orbitante), e ha l’aspetto di un mostro (vagamente un ragno) dotato di 4/5 braccia snodate e capaci di movimenti molto raffinati e rotazioni fino a 360° a cui vengono collegati gli strumenti laparoscopici e la videocamera (tridimensionale e ad alta definizione) che preventivamente vengono posizionati dal chirurgo nel campo operatorio con la classica tecnica di inserimento per la creazione del pneumoperitoneo (gonfiaggio della cavità addominale con anidride carbonica). Naturalmente, mentre l’unità di controllo e visione potrebbe stare anche a distanza dal letto operatorio, permettendo all’operatore, che non dovrà più essere sterile, anche di rifocillarsi durante gli interventi più lunghi e complessi, l’unità paziente sarà necessariamente sterile e correttamente drappeggiata e protetta come tutto il campo operatorio; intorno a quest’ultima saranno inoltre operativi uno o più chirurghi esperti in questa tecnologia e l’infermiere strumentista specializzato.

I principali vantaggi di questa tecnologia, utilizzata nel campo urologico principalmente per gli interventi di prostatectomia radicale (RARP), nefrectomia parziale (RAPN) e cistectomia, ma anche in molto altri ambiti di chirurgia ginecologica e generale, consistono nell’estrema precisione dei movimenti degli strumenti endoscopici, a cui non si trasmetterà più il tremore fisiologico della mano del chirurgo, nella possibilità di eseguire tagli e suture anche a 360° e soprattutto nell’estrema definizione degli organi interessati dall’intervento. In questo modo, il dolore postoperatorio viene drasticamente ridotto, il sanguinamento è quasi irrilevante e i danni chirurgici (ad esempio la lesione dei nervi erigentes durante la prostatectomia radicale) è ridotta al minimo. Il rovescio della medaglia è però rappresentato dai tempi anestesiologici e chirurgici, che sono superiori all’incirca di 1/3 rispetto alle metodiche classiche, e soprattutto dai costi che, in tempi di vacche magre, hanno costretto molti ospedali a mettere le apparecchiature in soffitta. Naturalmente va poi spiegato bene ai pazienti che ciò che viene fatto all’interno del corpo ha sempre bisogno dei suoi tempi per la guarigione e che, come amo dire io, “forbes che no taia e aghi che no sponze no i ancora stadi enventadi!” (forbici che non tagliano e aghi che non pungono non sono ancora stati inventati).

Figura 3. Chirurgia robotica.

Per fortuna da noi mamma Provincia è ancora in grado di coprire le spese, e addirittura si parla di acquisire il nuovo recentissimo modello, chiamato da Vinci Xi, ancora più sofisticato e adatto a procedure sempre più complesse e avveniristiche.

Anche per i chirurghi è necessaria un’adeguata curva di apprendimento, magari con stage in centri altamente specializzati in questa metodica, naturalmente dopo aver appreso e dominato le metodiche tradizionali, altrimenti rischieremo di trovarci una generazione di chirurghi perfettamente “robotici”, ma stupiti e attoniti di fronte alla complessità di un addome aperto, magari inondato di sangue dopo un trauma o un’emorragia improvvisa! Probabilmente la generazione di “nativi digitali” sarà la più idonea a portare avanti e a sviluppare ulteriormente queste tecnologie, che ormai, anche grazie alla mela sbucciata e tagliata a spicchi con il da Vinci dal chirurgo televisivo della famosa serie Residents, sono entrate nell’accezione comune insieme alla speranza di guarigioni sempre più sicure e veloci da malattie un tempo altamente invalidanti.

*Dottor Andrea Scardigli
Dirigente Andrologo e Urologo O.S. Ospedale Santa Chiara – Trento

[Articolo contenuto in Rene&Salute Anno XXXIV – Novembre 2019 – n. 3/4, pp. 17-18]