Calare il consumo per una salute migliore
di Diana Zarantonello *
Il sale è una sostanza costituita per il 40% di sodio e per il 60% di cloro. Non apporta calorie e viene ampiamente utilizzato per esaltare il sapore dei cibi che consumiamo. È presente in notevoli quantità nei cibi industrialmente lavorati (come prodotti da forno, cibi pronti surgelati, carni lavorate e formaggi stagionati), mentre il suo contenuto nei prodotti freschi come frutta, verdura, legumi e cereali integrali è assai scarso.
Il sodio contenuto nel sale, in particolare, è un elettrolita essenziale per il nostro organismo ma, se ne introduciamo troppo con la dieta, può portare a diversi problemi di salute
Innanzitutto è importante capire di quanto sodio ha bisogno il nostro organismo. Dobbiamo pensare che per milioni di anni i nostri antenati, che avevano una dieta prevalentemente basata su vegetali freschi, consumavano bassissime quantità di sale (si stima circa 0,4 g di sodio/die!). Pertanto il nostro organismo ha sviluppato meccanismi assai complessi allo scopo di trattenere nel nostro corpo quel poco di sale che assumeva con la dieta. Il rene rappresenta un organo chiave in questo processo ed è deputato a mantenere il delicato equilibrio tra apporto ed eliminazione di questo elemento.
La disponibilità, e quindi il consumo di sale, inizia circa 5000 anni fa; successivamente si scopre che il sale si presta anche come conservante e viene pertanto utilizzato anche per tale scopo (in attesa della scoperta dei frigoriferi!). Oggi viene largamente utilizzato dall’industria del cibo come additivo e esaltatore di sapore. Esistono dei “modelli viventi” dei nostri antenati che sono le popolazioni indigene rimaste isolate e quindi non contaminate dallo stile di vita dell’uomo civilizzato. Un esempio è rappresentato dagli indiani Yanomamo, una tribù che abita la foresta tropicale del nord del Brasile e del sud del Venezuela, caratterizzata per l’assente consumo di sale. L’apporto stimato di sodio di questa popolazione (basato sulla misurazione dell’escrezione di sodio con le urine) è di circa 0,03 g al giorno, un valore bassissimo. Eppure, nonostante ciò, queste persone conducono una vita molto attiva, e anzi presentano alcuni aspetti positivi riguardo al loro stato di salute: infatti presentano bassi valori di pressione arteriosa, così come di colesterolo totale e di peso corporeo. L’aspetto che ha più colpito gli studiosi è stato l’andamento dei valori pressori di questi indigeni in relazione all’età. Infatti, a differenza di ciò che avviene nella popolazione civilizzata, dove si osservano bassi valori di pressione arteriosa nell’età infantile fino a circa la seconda decade, e successivamente un graduale incremento, gli indiani Yanomamo presentano pressioni stabili intorno a 10060 mmHg che si mantengono anche in età avanzata. L’osservazione dei valori di pressione arteriosa nei grandi studi di popolazione “civilizzata” aveva invece indotto gli studiosi a ritenere “normale” l’incremento dei valori pressori osservato con l’età. Basti pensare che fino a qualche decade fa si riteneva persino che i valori pressori per ogni persona andassero calcolati sommando al valore di 100 l’età del paziente; quindi all’età di 80 anni la pressione arteriosa (sistolica) “normale” poteva essere 180 mmHg! Un valore al giorno d’oggi ritenuto assolutamente patologico. Infatti numerosi lavori successivi hanno suggerito che valori elevati di pressione arteriosa correlano con un maggior rischio di mortalità per patologie cardiovascolari. Le linee guida per l’ipertensione nella popolazione generale consigliano, attualmente, di mantenere valori di pressione arteriosa inferiori a 120/80 mmHg.
Riguardo il consumo di sale nella popolazione adulta, le linee guida suggeriscono un apporto di sodio inferiore a 2 g/die, che corrisponde ad un cucchiaino raso da tè (inferiore a 5 g/die). Queste indicazioni appaiono discostarsi molto dal consumo di sodio al quale l’uomo è stato esposto per il 90% della sua esistenza e per il quale è geneticamente programmato. Tali indicazioni contrastano ancora di più con quelli che sono i reali consumi valutati sia in America che in Europa, che si stimano essere di circa 10-11 g/die. Uno studio italiano chiamato “MINISAL”, ha analizzato un campione della popolazione italiana, evidenziando come il consumo medio di sale, valutato in base alla sodiuria (cioè alla misurazione dell’escrezione di sodio con le urine) fosse di circa 8,5 nelle donne e 10,9 g negli uomini (quindi il doppio di quello consigliato). È inoltre emerso che le regioni del sud Italia risultavano caratterizzate da un maggior consumo di sale rispetto a quelle del nord. Le evidenze scientifiche riguardanti l’aumento pressorio prodotto dal sodio sono chiare e includono trial randomizzati in doppio cieco (nei quali cioè viene somministrato il sale o una sostanza neutra detta “placebo” all’insaputa sia del paziente, sia del medico stesso che conduce lo studio) che risalgono a qualche decade fa. È stato osservato che una dieta iposodica è in grado di ridurre la pressione arteriosa negli ipertesi. Se a tali individui somministriamo successivamente pillole contenenti placebo (cioè una sostanza senza alcun effetto), la pressione rimane invariata mentre, se somministriamo pillole contenenti sale, la pressione si rialza. Tale effetto è stato osservato anche con un singolo pasto: se somministriamo una zuppa contenente un’elevata quantità di sodio, vediamo che la pressione arteriosa aumenta dopo trenta minuti e per le successive tre ore. La stessa zuppa, ma senza sale, non produce invece alcun effetto sulla pressione.
Fino alla prima metà del ‘900 non esistevano farmaci in grado di abbassare la pressione arteriosa, pertanto le persone che venivano colpite da una patologia chiamata “ipertensione maligna”, caratterizzata da crisi ipertensive con danneggiamento d’organo (cuore, rene, cervello e occhi), avevano una prognosi infausta, con un’aspettativa di vita che non superava i 6 mesi. Tra i personaggi celebri colpiti da questa temibile patologia ricordiamo Franklin Delano Roosevelt, presidente degli Stati Uniti, che morì per ictus emorragico nel 1945, all’età di 63 anni.
Un medico tedesco, il dottor Walter Kempner, in mancanza di altre possibilità terapeutiche, decise di sperimentare una dieta per tentare di curare le persone affette da tale patologia. Questa dieta era composta di solo riso e frutta e risultava a basso contenuto di sodio, ma anche a scarsissimo apporto di grassi e proteine. Seppur rischiosa per i possibili deficit nutrizionali (infatti veniva somministrata sotto supervisione medica, con utilizzo di alcuni integratori vitaminici), questa dieta si mostrò in grado di ridurre i valori di pressione arteriosa da 240/150 a 105/80 mmHg, e di far regredire i danni a livello oculare, renale e cardiaco nel 70 per cento dei casi. Secondo diversi autori successivi, la dieta di Kempner dimostra in maniera inequivocabile che un basso apporto di sodio è in grado di far ridurre la pressione arteriosa nella maggior parte dei casi.
Ma il sale non agisce solo sulla pressione arteriosa: un consumo eccessivo facilita la formazione di calcoli nelle vie urinarie, poiché aumenta l’eliminazione di calcio con le urine, predispone inoltre all’insorgenza di cancro dello stomaco (tabella 1).
Tabella 1. Patologie riconosciute come correlate all’eccessivo consumo di sodio
Ipertensione arteriosa |
Ictus |
Ipertrofia ventricolare sinistra |
Malattia renale |
Calcoli renali |
Cancro dello stomaco |
Recentemente sono stati evidenziati anche altri effetti dannosi, che correlano con l’eccessivo consumo di sodio.
Sodio e funzione endoteliale
È stato dimostrato che una dieta a basso contenuto di sodio è in grado di migliorare la funzione endoteliale, effetto che risulta indipendente dalla pressione arteriosa. Una delle ipotesi più accreditate per spiegare questo effetto è che il sodio agisca inibendo l’enzima superossido dismutasi, che è presente nelle cellule vascolari con la funzione di distruggere i radicali liberi dell’ossigeno. Dato confermato da uno studio che dimostra come la somministrazione di vitamina C (un antiossidante che agisce neutralizzando i radicali liberi) è in grado di contrastare l’effetto del sodio sull’endotelio. Un altro studio suggerisce invece che il sodio inibisca l’enzima deputato alla produzione dell’ossido nitrico, che ha una azione vasodilatatrice.
È interessante notare che questo effetto negativo del sale sulla capacità vasodilatante fosse già stato postulato da un medico cinese nel 2600 AC! Infatti nel “Huang Ti Nei Ching Su Wen” (Testo di medicina interna dell’imperatore Giallo”) troviamo che “Se usi troppo sale per il cibo il polso si indurisce” (riferendosi alla pratica, propria della medicina cinese, di visitare il paziente anche mediante la valutazione delle caratteristiche della pulsazione dell’arteria radiale a livello del polso).
Sodio e autoimmunità
I primi studi che correlano il consumo di sale con una condizione di dis-reattività del sistema immunitario riguardano l’asma. Già a partire agli anni ’80 sono stati pubblicati lavori che evidenziavano come il maggior consumo di sale si associasse a maggiori sintomi asmatici. Più recentemente uno studio ha analizzato gli attacchi d’asma indotti dall’esercizio fisico (che colpiscono il 90% delle persone con asma cronico, ma anche il 3-10% della popolazione generale e fino al 50% degli atleti sportivi). Si è potuto verificare che il tipo di reazione variava a seconda del consumo di sale di questi pazienti (maggiore il consumo di sale, maggiore i segni di bronco-ostruzione). Successivamente è emerso che la patogenesi di diverse malattie autoimmuni (psoriasi, diabete di tipo I, artrite reumatoide, Sjogren e anche asma) coinvolge l’attivazione aberrante di alcune cellule del sistema immunitario (linfociti T Helper 17) come protagonisti nello scatenare un’impropria risposta infiammatoria. Recenti evidenze hanno mostrato che la differenziazione di queste cellule è sensibile al microambiente locale: una elevata concentrazione di sodio nell’interstizio è in grado di promuovere una loro attivazione.
Inoltre un elevato apporto di sale non solo aumenta il rischio di sviluppare una malattia autoimmune, ma sembra anche giocare un ruolo nel favorire una maggiore aggressività della stessa. Per esempio uno studio ha recentemente evidenziato che i pazienti affetti da Sclerosi Multipla, con apporto medio ed elevato di sodio avevano un rischio di 2,75 volte maggiore di presentare una riesacerbazione della patologia, rispetto a coloro che ne consumavano meno.
Cibi lavorati… con un sacco di sale
I cibi industrialmente raffinati risultano molto ricchi di sale (tabella 2), ed attualmente sono responsabili del 75-80% dell’apporto di sale della nostra dieta. È pertanto evidente che l’azione che possiamo giocare nel ridurre l’aggiunta di sale agli alimenti è ben marginale, se continuiamo a consumare prodotti industriali. Ma perché viene aggiunto tutto questo sale durante la lavorazione dei prodotti?
Tabella 2. Differenze nel contenuto di sale tra prodotti naturali e derivati industriali (Fonte: INRAN 2000)
PRODOTTI AL NATURALE (mg/100 g di cibo) | PRODOTTI LAVORATI (mg/100 g di cibo) | ||
---|---|---|---|
Frumento | 8 | Pane tipo rosetta | 805 |
Fagioli cannellini secchi | 13 | Fagioli cann. in scatola | 1095 |
Pomodoro fresco | 8 | Minestra di pomodoro | 1006 |
Manzo magro | 127 | Manzo in scatola | 1770 |
Patate | 18 | Patatine fritte in busta | 2718 |
Latte intero | 127 | Formaggio grana | 1778 |
Uno studio ha voluto far luce sulle possibili ragioni (economiche) di ciò. Ve ne sono almeno tre: la prima è legata al fatto che i cibi molto salati “abituano le nostre papille gustative” e ci fanno sembrare i cibi naturali poco appetibili (pertanto siamo più invogliati a consumare cibi industriali piuttosto che quelli freschi). L’altra ragione è legata al fatto che il cibo salato stimola la sete, che a sua volta ci spinge a consumare più bevande zuccherate o acque minerali (alimentando pertanto il profitto delle aziende che le producono). La terza ragione, attuata dall’industria della carne, è legata al fatto che l’aggiunta di sale alla carne ne aumenta la ritenzione di liquido e quindi il peso, di conseguenza e aumenta anche il prezzo al quale potrà essere venduta.
Inoltre l’aggiunta di sale alle proteine muscolari della carne permette di migliorarne la consistenza e l’appetibilità. A tal proposito era stato suggerito l’utilizzo di un prodotto alternativo (la “transglutaminasi”), con analogo effetto, ma tale ipotesi è stata abbandonata perché risultava troppo costosa rispetto al sale.
In conclusione, visti gli effetti negativi dell’eccessivo consumo di sale, come possiamo tutelarci? A tal proposito il dott. Roberts nel suo articolo (“High salt intake, its origins, its economic impact, and its effect on blood pressure”) ci fornisce qualche suggerimento, che riportiamo nella tabella 3, peri nostri lettori.
Tabella 3. Suggerimenti del dott. W.C. Roberts
1. Non mettere il sale in tavola (non è scortesia, è prevenzione!) |
2. Consumare il più possibile cibo fresco e non elaborato, come frutta, verdura e legumi. |
3. Per rieducare le nostre papille gustative: sospendere l’aggiunta di sale e il consumo di cibi raffinati e pazientare 2-4 settimane: dopo questo periodo, nel quale i cibi ci sembreranno insipidi, riacquisteremo la sensibilità dei nostri recettori e torneremo a percepire il reale sapore dei cibi e persino li preferiremo a quelli salati! |
4. Incrementare il consumo di insaporitori naturali come pepe, aglio, cipolla, pomodoro, basilico, timo, lime, chili, rosmarino, curry, sedano. |
5. Evitare i cibi lavorati e/o pronti, le carni conservate (salumi e affettati), i formaggi. Un cibo che non è stato lavorato con l’aggiunta di sale deve avere un contenuto di sale <250 mg ogni 100 g. Un altro modo per vedere se il contenuto di sodio di un cibo è appropriato è leggere sulla confezione per verificare se i milligrammi di sale corrispondono all’incirca alle Kcal (su 100 g di prodotto). Se invece il valore del sale supera di molto le calorie quel cibo ne contiene troppo e andrebbe evitato. |
Quindi impariamo ad apprezzare il vero sapore dei cibi, senza l’aggiunta di sale… questo ci aiuterà a vivere con più salute e meno medicine!
* Dott.ssa Diana Zarantonello
Dirigente Medico U.O. Nefrologie e Dialisi
O. S. Chiara Trento
[Articolo contenuto in Rene&Salute Anno XXXIII – Aprile 2018 – n. 1/2, pp. 15-19.]