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Una questione di oblio

di Aldo Nardi

«Conservare la memoria del passato è stato uno dei compiti prioritari dell’uomo, perché il rischio era quello di dimenticare». Con l’avvento di Internet questo processo è stato capovolto, nel senso che ogni cosa viene ricordata e l’identità personale del singolo si trasforma in un’identità “estesa”, rispetto alla quale sorgono nuovi inquietanti problemi. Carlo Formenti, nell’introdurre il libro di V. M. Schönberger Delete. Il diritto all’oblio nell’era digitale, scrive: «[D]imenticare è facile, in quanto l’oblio è inscritto negli stessi meccanismi della specie» (p. VIII).

È qui che, piuttosto che lo sforzo messo in opera per ricordare, prende corpo lo sforzo opposto: quello di dimenticare, compresa la rimozione dalla memoria di quei contenuti che compromettono la reputazione di una persona.

Naturalmente, prima di procedere a tale compito, è necessario intendersi sul significato attuale di memoria.

Quella che è stata, con un’associazione tutt’altro che azzardata, definita dall’esperto di web intelligence Andrea Barchiesi la nuova biblioteca di Alessandria (La tentazione dell’oblio, Angeli, Milano, 2016, p. 23), cioè Google, è, di fatto, la nostra nuova memoria, ma una memoria dalle dimensioni smisurate che possiede elemento di assoluta novità – la caratteristica di essere connessa in una rete e alla quale chiunque può accedere in ogni parte del mondo (ibid).

Mentre ci accingiamo a parlare di oblio dobbiamo prendere atto del fatto che, come scrive Andrea Barchiesi, l’umanità, dopo millenni l’oblio lo ha sconfitto superando i suoi limiti fisiologici e «creando una memoria in grado di immagazzinare ogni cosa» (ibid). Non solo, così facendo ha potuto realizzare una «rete di condivisione mondiale delle proprie esperienze, una rete partecipativa e attiva definendo gli albori di una intelligenza distribuita mondiale» (ibid, p. 24).

Questo fenomeno non può non avere profonde ripercussioni anche sul piano sociale, oltre che sui comportamenti individuali, così come sta già avendo effetti significativi sul piano dei consumi, del lavoro e, più in generale, dell’economia. Basti pensare che più di 40 milioni di persone in Italia sono attualmente connesse ad Internet, con la conseguente creazione di una massa enorme di dati personali, esperienze e relazioni destinati a produrre «una delle più grandi banche dati mondiali con l’inconsapevole contributo di tutti» (ibid, p. 25).

Se partiamo da queste considerazioni, non possiamo ignorare però che i mezzi di comunicazione (computer, tablet, smartphone, tv ecc.) non ci mettono in contatto con il mondo, ma con una sua rappresentazione che produce importanti effetti sul nostro modo di fare esperienza poiché, come è stato rilevato (U. Galimberti, I miti del nostro tempo, Feltrinelli, Milano, 2009), mentre ci avvicina ciò che è lontano, ci allontana da ciò che ci è vicino. La conseguenza più pericolosa può pertanto essere condensata nella perdita di uno dei beni più preziosi dell’individuo che è la «capacità di fare esperienza» (ibid). È scontato quindi che vi siano conseguenze sul piano socio-antropologico non indifferenti dal momento che le new technologies condizionano il nostro pensiero «non nel senso che ci dicono cosa dobbiamo pensare, ma nel senso che modificano in modo radicale il nostro modo di pensare, trasformandolo da analitico, strutturato, sequenziale e referenziale, in generico, vago, globale, olistico» (ibid).

In ogni caso, si tratta di un trend irreversibile se è vero, com’è vero, che «il 79% degli italiani utilizza internet per cercare informazioni e ben il 40% condivide sul web esperienze personali su prodotti e servizi» (A. Barchiesi, cit., p. 25).

Come può tutto questo non modificare i comportamenti sociali, oltre a quelli economici? Gli attacchi rivolti, anche da numerosi intellettuali, in anni recenti ad Internet responsabile, a loro parere, di compromettere la memoria individuale, trascura il fatto che Internet è diventata, al contrario, un’immensa memoria alla quale possiamo attingere in qualsiasi momento, mentre quello che ci serve è un processo di indicizzazione. È un po’ come se noi possedessimo l’indice di un libro, mentre il suo contenuto è depositato nel web. Per dirla con Barchiesi (ibid, p. 30), si tratta di «essere in grado di ricostruire relazioni complesse partendo da elementi semplici». Ora, il problema chiave di questo cambiamento radicale è quello che riguarda la privacy di ogni individuo in una dimensione di connessione permanente per circa la metà della popolazione (almeno per quanto riguarda l’Italia). Qui sorge un primo, enorme ostacolo tra chi dovrebbe garantire la privacy e le possibili violazioni di quest’ultima.

Secondo Barchiesi (ibid, p. 32) si tratterebbe di una lotta del tutto impari dal momento che le forze di chi dovrebbe garantire la privacy sono, fino ad oggi, limitate, mentre le potenzialità connaturate nelle possibili violazioni sono infinite. Basterà, a questo proposito, pensare a quanto sia facile copiare fotografie o informazioni da una bacheca privata e postarle su un sito accessibile a chiunque voglia accedervi, oppure come sia facile diffondere notizie riservate. Ma, se tutto questo – ed altro ancora – è piuttosto semplice da attuare, non altrettanto facile è fermarne la diffusione, dal momento che «una volta che il contenuto è pubblico anche chi lo ha diffuso ne perde del tutto il controllo» (ibid).

Dal momento che stiamo andando a grande velocità verso un mondo che non dimentica, allora si tratta di capire che gli esseri umani saranno in grado di adeguare i loro processi cognitivi al “ricordo digitale”. Di questo sembra essere convinto V. Mayer-Schönberger il quale ritiene che si tratta di un adeguamento che partirà dalla nostra mente anziché da un rimodellamento della società. Saremo noi stessi che riadatteremo i nostri meccanismi cognitivi per adattarli al “ricordo digitale”. «I ricordi – afferma Mayer-Schönberger – ci saranno sempre, ma la nostra mente riadattata, proprio come una padella rivestita di teflon, non ne terrà conto in modo che non ci confondano» (p. 134).

Le violazioni della privacy sul web costituiscono accadimenti all’ordine del giorno e la rimozione dei dati che possono danneggiarci da parte della polizia postale o del Garante non sembra qualcosa di automatico e scontato. Infatti, per arrivare a risolvere problemi del genere possono essere necessari tempi molto lunghi e «nel frattempo il contenuto può essere stato copiato e diffuso in altri siti web vanificando del tutto il lavoro fatto» (ibid, p. 33). Come non bastasse tutto questo, vi sono le diverse e spesso contrastanti posizioni degli organi giudicanti che, in più di un’occasione, hanno cercato (senza tuttavia riuscirvi più di tanto) di dare una definizione unitaria, sul piano della responsabilità, tra reati a mezzo stampa e contenuti di una testata telematica. Fa riflettere, a tale proposito, la decisione della Cassazione penale (V, 16 luglio 2010, n. 35511) che, in un primo tempo aveva condannato il direttore di un sito di cronaca per aver offeso la reputazione di un uomo politico e di un suo consulente attraverso un commento diffuso in rete, equiparando di fatto il sito telematico ad un giornale, con relativa applicazione dell’art. 13 della legge sulla stampa. Salvo poi, circa un anno dopo, escludere l’identità tra stampa e telematica posto che, mentre per la prima esiste una definizione legislativa (che prevede la riproduzione in più esemplari), per la seconda la medesima definizione non è applicabile dal momento che il fenomeno dell’informazione sul web si muove con modalità del tutto diverse. Qualora quindi fosse venuto meno il controllo sui contenuti di una testata telematica e si fosse comunque nel rispetto dei principi sanciti dalla Costituzione (cfr. art. 21) in materia di informazione, bisogna comunque tener conto del fatto che la quantità di dati e la velocità del loro inserimento comportano, nei fatti, l’«impossibilità di affidare ad un soggetto l’incombenza di verificarne la correttezza». D’altra parte, per dirla con C. Melzi d’Eril, se tale comportamento si rivela inesigibile, «non si può essere puniti se si omette ciò che non si sarebbe potuto compiere» (“Il mondo di Internet”, in AA.VV., Le regole dei giornalisti, a cura di C. Malavenda et al, il Mulino, Bologna, p. 105).

Se teniamo conto delle decisioni che hanno fatto seguito alla sentenza della Corte di Giustizia Europea del maggio 2014 sul caso Google Spain, non possiamo tuttavia ignorare la reazione dell’opinione pubblica di fronte all’eliminazione di parti del web, reazione che viene equiparata ad un vero e proprio attacco alla libertà di informazione. Lo stesso Barchiesi ricorda come, di fronte a questa offensiva, la reazione del web non ha tardato a farsi attendere. È il caso dell’apparizione del sito on line Hiddenfromgoogle.com che ha raccolto alcuni link rimossi da Google. Si tratta di un esempio significativo di come «la reazione può essere peggiorativa rispetto al caso iniziale» (Barchiesi, cit., p. 146).

D’altra parte l’asset giuridico [1] del diritto all’oblio si basa sul bilanciamento tra diritto alla privacy e diritto all’informazione, anche se, nei fatti, questo equilibrio viene inevitabilmente infranto. Mentre da un lato si corre il rischio di rimuovere, con il link, anche le informazioni che riguardano importanti fatti di cronaca quali i reati (col rischio di occultare informazioni a possibili future vittime su un soggetto che ha commesso un determinato crimine), dall’altro accade che la rimozione di un contenuto relativo ad un determinato fatto finisce col provocare un dibattito sull’avvenuta rimozione che produce, paradossalmente, un “allargamento della notizia” traducibile nel fenomeno esattamente opposto all’obiettivo che si voleva raggiungere, cioè l’oblio.

La sentenza della Corte di Giustizia Europea del 2014 sul caso Google Spain più che risolvere un problema sembra abbia posto l’attenzione sul problema a fronte di una memoria, quella del web, che, oltre ad essere in grado di immagazzinare ogni cosa, sembra anche avere sconfitto l’oblio.

Quando viene postato un contenuto sul web dobbiamo tener conto del fatto che, oltre alle richieste di rimozione (sulle quali, come abbiamo visto, vi sono limiti non indifferenti, al di là delle sentenze), si verifica anche la cosiddetta “rigenerazione ciclica dei contenuti”. Ciò si spiega col fatto che, per riprendere Barchiesi, «il mondo on line è molto simile ad una grande pentola in ebollizione dove in funzione della temperatura del sentimento generale, della cronaca e delle mode si originano ciclicamente delle bolle che dal fondo salgono verso la superficie. È un fenomeno rigenerativo in cui vengono ripresi degli argomenti e vengono nuovamente trattati, linkati, diffusi. Nell’oblio nulla si distrugge, semplicemente si rimuove dall’indice del motore di ricerca» (ibid, p. 156).

Chi si occupa di identità personale dal punto di vista psicologico, ha qualche difficoltà a confrontarsi con l’identità digitale e le sue neocontaminazioni fatte di continui scambi culturali e sociali. Infatti «ogni identità è immersa in un ecosistema di altre identità in cui ognuna estende la sua influenza su quella più prossima» (ibid, p. 43). All’interno di questo spazio prende forma quella che viene definita in gergo “stretta di mano digitale”, ovvero l’incontro relazionale che si costruisce sul web in base agli elementi che contraddistinguono i soggetti tra loro comunicanti. È evidente che, a seconda degli elementi che definiranno le singole identità, potremmo avere una identità positiva o un’identità negativa. Di riflesso, oltre all’identità digitale del singolo, è molto importante l’identità delle persone con le quali il singolo si pone in relazione, sotto qualunque forma o modalità.

Come afferma Barchiesi, «essere associati a soggetti dalla reputazione negativa genera riflessi negativi sul modo in cui veniamo percepiti» (ibid, p. 45). Si verifica, in altre parole, il cosiddetto “contagio comportamentale”, secondo il quale la frequentazione di persone che posseggono determinate caratteristiche, comporta che queste vengono automaticamente trasferite al soggetto stesso. Per questa ragione si arriva a parlare anche di “reputation economy”, quale base di fiducia che costituisce il presupposto delle relazioni on line, in quanto «la nostra immagine dipende dalla percezione che gli altri ricevono dai contenuti on line che ci riguardano e dalla proiezione di fiducia (o sfiducia) che essi generano» (ibid, p. 52).

La possibilità di rimuovere contenuti negativi dal web rientra nell’ampio dibattito sul diritto all’oblio [2], che prevede la possibilità per gli internauti di «ritirare il consenso prestato all’uso dei propri dati personali e il diritto, per ogni individuo, di vedere rimosse dalla rete quelle informazioni inerenti ad eventi che non riflettono più la propria identità» (ibid, p. 80).

Il lungo dibattito e le numerose sentenze in materia di violazione della privacy emesse in anni recenti sono stati condensati nella decisione della Corte di Giustizia Europea del 13 maggio 2014 con la quale si è stabilito che i cittadini europei hanno il diritto di richiedere al motore di ricerca la rimozione di informazioni associate al proprio nome nel caso in cui queste si rivelino «inadeguate, non pertinenti o non più pertinenti, ovvero eccessive in rapporto alle finalità del trattamento in questione realizzato dal motore di ricerca».

Il motore di ricerca ricopre, nell’ambito di questa storica sentenza un ruolo particolare che si può condensare nella pratica di raccolta, estrazione, registrazione, organizzazione dei dati all’interno dei propri programmi di indicizzazione. Tutto ciò viene poi conservato nei server per metterlo successivamente a disposizione degli utenti. L’elemento di novità introdotto dalla sentenza della Corte di Giustizia Europea del 2014 consiste nel fatto che la responsabilità del trattamento dei dati, che in un primo tempo veniva attribuita ai gestori dei siti che pubblicavano i contenuti, viene estesa anche al motore di ricerca (ibid, p. 86). È infatti a quest’ultimo che viene attribuita una specifica responsabilità condensata nel fatto di restituire una «visione complessiva strutturata delle informazioni relative al soggetto su internet» (ibid).

E si tratta di informazioni che toccano una molteplicità di aspetti legati alla vita privata dell’individuo in oggetto che, senza l’azione del motore di ricerca sarebbero state difficilmente correlate all’utente in questione (ibid). Rimane il fatto che la questione dell’oblio si inserisce nello “scontro” tra la tutela del singolo e la tutela della collettività. La questione della tutela della privacy tocca anche il materiale archiviato. Qui è intervenuta la Corte di Cassazione nel 2012, quindi con una sentenza che anticipa la sentenza della Corte di Giustizia Europea del 2014. In questo caso la Cassazione ha affrontato il problema della raggiungibilità delle notizie archiviate nell’edizione on line di un giornale. Si è trattato, nella fattispecie di evitare che l’accesso a contenuti decontestualizzati, potessero ledere la reputazione di una persona, sia pure trattandosi di contenuti archiviati a scopo giornalistico. La sentenza del 2012 ha stabilito, a questo proposito, che il soggetto ha diritto all’aggiornamento del contenuto archiviato, onde evitare che la reputazione del soggetto venga compromessa sulla base di fatti «appartenenti al passato» (A. Salerno, “Il diritto all’oblio nella più recente giurisprudenza”, in Giustizia civile, 7/3/2014, p. 90). C’è anche da dire, come ci informa Barchiesi, che il contenuto on line «non è come il latte che ha una scadenza» (cit., p. 92), esso infatti potrebbe conservare la sua validità e assolvere il suo compito di “memoria storica sociale”, posto che «una notizia che presenta oggi i caratteri di obsolescenza, potrebbe diventare oggetto di interesse domani» (ibid, p. 92).

È allora legittimo definire il diritto all’oblio un’«anomalia tutta europea» (ibid), dal momento che, ad esempio, lo stesso diritto non esiste negli USA, dove peraltro è noto il diritto alla privacy come elemento di equilibrio tra riservatezza e informazione? Evidentemente sì, se è vero, come è vero, che dal momento che negli USA tale diritto non è contemplato, niente vieterà a Google di «mantenere sulla versione.com del motore di ricerca contenuti rimossi dalle versioni europee» (ibid, p. 95).

La stessa sentenza della Corte di Giustizia Europea, che ha definito illegale Safe Harbour (l’accordo predisposto dalla Commissione Europea in base al quale i dati dei cittadini europei vengono trasferiti negli USA), non sembra garantire in pieno la tutela della privacy. Anche perché difficilmente gli USA sono disposti a rinunciare a questo sistema di “sorveglianza”, ed è quindi assai probabile che, attraverso altri sistemi, riescano a bypassare il trasferimento di questi dati (ibid, p. 96).

Note:

1. Lo sviluppo dei contenuti on line e la complessificazione del processo di comunicazione ha reso inadeguati i vecchi schemi di riferimento e la normativa giuridica. Come ricorda Andrea Barchiesi, «i canali televisivi sono centinaia e sempre più interattivi, i quotidiani sono in grande difficoltà, ed alcuni storici come l’Unità hanno chiuso i battenti, le riviste specializzate ridotte ad un numero decisamente esiguo. Passeggiando per le città in molte edicole è esposto il cartello vendesi» (cit., p. 106).

2. Per esempio, dovevano essere rimossi i link e le informazioni su Tiziana, la 31enne suicida-tasi dopo la diffusione sul web, a sua insaputa, di video hard (Tribunale di Napoli). La procura di Monaco ha aperto un’inchiesta contro il fondatore di Facebook Mark Zuckerberg con l’accusa di complicità nell’incitazione all’odio razziale e per la negazione dell’olocausto, per aver consentito la pubblicazione di un messaggio di odio (Der Spiegel).

[Articolo contenuto in Rene&Salute Anno XXXVI – Giugno 2020 – n. 1/2, pp. 32-35]