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Il pianeta in tavola: diminuire il proprio impatto ambientale grazie all’alimentazione

di Denise Filippin*

Le attività umane hanno un impatto sull’ambiente. Per ridurlo si stanno intraprendendo molte azioni: riciclaggio, riduzione degli imballaggi, passaggio a fonti energetiche rinnovabili, incentivi per la conversione energetica di edifici.

Tra tutti gli interventi non viene quasi mai menzionata la possibilità di agire sulla scelta degli alimenti da portare in tavola: l’impatto ambientale dell’alimentazione è un argomento molto studiato ma ancora poco noto e divulgato.
Il termine ecologia della nutrizione è stato coniato nel 1986 da un gruppo di studiosi dell’Università di Giessen in Germania. Si tratta di una scienza interdisciplinare, che prende in esame tutte le componenti della catena alimentare e ne valuta gli effetti in relazione a quattro aspetti: salute umana, ambiente, società ed economia. Quantifica numericamente gli impatti considerando tutto il processo produttivo, “dalla culla alla tomba”, cioè dall’inizio della produzione fino allo smaltimento finale dei rifiuti.

Anche se non è il primo tipo di attività a cui si pensa, quando si parla di inquinamento, il settore alimentare è a tutti gli effetti un processo produttivo che, come tutti i processi produttivi, ha un impatto ambientale dovuto al consumo di risorse e all’emissione di inquinanti.

La produzione di alimenti richiede un massiccio utilizzo di materie prime e risorse: acqua, energia, terreno, sostanze chimiche. Comporta emissione di inquinanti: gas serra, deiezioni animali, sostanze chimiche. Inoltre è causa di danni ambientali diretti, in particolare deforestazione con successiva desertificazione dei territori disboscati. Questi fattori hanno un’influenza importante su effetto serra e cambiamenti climatici.

Dagli studi di impatto emerge come l’utilizzo di alimenti vegetali, in sostituzione degli alimenti di origine animale, permetta di ridurre gli impatti in quanto il numero di trasformazioni viene ridotto e così, di pari passo, accade per lo spreco di risorse e la produzione di inquinanti. Il motivo sostanziale per cui i cibi di origine animale hanno un impatto ambientale molto più alto dei vegetali risiede nell’inefficienza intrinseca alla trasformazione vegetale-animale.

II mangimi vegetali, a base di mais e soia, ma anche altri tipi di cereali e farine di legumi, vengono trasformati in cibo attraverso il metabolismo animale, ma l’animale allevato consuma molte più calorie e proteine di quante ne produca!

Si è parlato spesso degli animali allevati come di “fabbriche di proteine alla rovescia”, per sottolineare l’inefficienza e lo spreco insiti in questo processo.

Per capire meglio la problematica può essere presa come riferimento la “protein conversion ratio” ovvero la quantità di proteine da mangime necessaria per ottenere 1 kg di proteina animale.

Il bilancio è francamente negativo, con un rapporto medio di 9 a 1: per produrre 1 kg di proteine animali sono necessari 9 kg di proteine vegetali contenute in mangimi appositamente coltivati. L’efficienza di trasformazione varia nelle diverse specie animali, con il rapporto più svantaggioso per quanto riguarda il manzo, che è pari a 20:1. Altri studi hanno valutato l’efficienza nell’utilizzo delle calorie e i valori ottenuti sono molto simili. Questo accade perché, naturalmente, la maggior parte del cibo ingerito dall’animale serve a fornire energia per le funzioni base dell’organismo e solo una parte esigua va ad aumentare il peso dell’animale. Il rapporto di conversione è negativo anche per quanto riguarda la produzione di latte, uova e di pesce (in acquacoltura).

Impronta idrica degli alimenti.

Questa inefficienza si ripercuote sull’ambiente: la quantità di risorse che viene utilizzata per coltivare i vegetali, ricavandone meno “prodotti” rispetto a quelli impiegati, è molto elevata e superiore a quella necessaria se si consumassero direttamente gli alimenti vegetali.

A questo proposito segnalo un lavoro molto completo, pubblicato nel 2018 sulla rivista scientifica Science, a cura di J. Poore e T. Nemecek: si tratta di un corposo studio di metanalisi sul tema dell’impatto ambientale delle produzioni alimentari, che ha occupato i ricercatori per diversi anni ed ha preso in considerazione 570 studi pubblicati, 38700 aziende in 119 paesi e 40 prodotti alimentari, che rappresentano il 90% delle fonti di calorie e proteine nel mondo.
Nelle conclusioni, per quanto riguarda l’utilizzo dei terreni, è risultato come la produzione di carne, pesce, uova e latticini, che apporta a livello globale solo il 18% delle calorie totali della dieta, utilizzi l’83% dei terreni dedicati alla produzione di alimenti e contribuisca per circa il 57% alle emissioni di vari inquinanti (nel settore delle produzioni alimentari).

Si stima che passando ad un’alimentazione 100% vegetale i terreni necessari per nutrire tutta la popolazione mondiale coprirebbero una superficie pari a 1/4 rispetto ad oggi.

Anche la quantità d’acqua necessaria per produrre alimenti animali è molto elevata: viene usata per le coltivazioni di mangimi, per l’abbeveramento degli animali, per la pulizia degli allevamenti e dei macelli.

Gli studi che valutano il consumo d’acqua sono innumerevoli, con alcune discrepanze nei risultati dovute a diverse variabili: i mangimi presi in esame, il tipo di suolo e di irrigazione, il clima e molti altri. In ogni caso si possono riassumere dicendo che, in media, i cibi animali richiedano rispetto a quelli vegetali, almeno 10 volte tanta acqua.
Nel report FAO del 2002 Diet, nutrition, and the prevention of chronic disease si legge “[…] la richiesta d’acqua diventerà probabilmente uno dei maggiori problemi di questo secolo. Anche in questo caso, i prodotti animali usano una quantità molto maggiore di questa risorsa rispetto ai vegetali.”

Un altro grosso problema è rappresentato dalle deiezioni degli animali, che non sono utilizzate come fertilizzante, ma sono un prodotto inquinante da smaltire con le dovute accortezze. Si tratta di liquami che contengono livelli di fosforo e azoto al di sopra della norma, potenziale fonte di inquinamento di acque e terreni, potendo passare nei corsi d’acqua e filtrare fino alle falde acquifere inquinandole.

Un altro fattore è invece legato all’emissione di gas serra: secondo il report Livestock’s Long Shadow La lunga ombra del bestiame, pubblicato dalla FAO nel 2006, il settore della zootecnia contribuisce all’effetto serra per il 18% del totale delle attività umane, valori simili a quelli dell’industria e più dell’intero settore dei trasporti, che si attesta attorno al 13,5%.

Questi valori sono correlati da un lato all’inefficienza di cui si è già trattato più sopra, dall’altro ad emissione diretta di gas, in particolare da parte di bovini e ovini. Questi animali emettono metano e ossido di azoto derivanti dal processo digestivo: si stima che Il 35-40% del metano e il 65% dell’ossido di azoto immessi nell’atmosfera derivino dagli allevamenti. Questi gas hanno un forte impatto sull’effetto serra: sono rispettivamente 23 e 296 volte più impattanti della CO2.

Sempre in relazione ai danni ambientali è noto come l’allevamento intensivo sia la principale causa di deforestazione: nella foresta Amazzonica l’88% dei terreni disboscati è stato adibito a pascolo o alla coltivazione di soia per mangimi animali, mentre circa il 70% delle zone disboscate del Costa Rica e del Panama sono state trasformate in pascoli.

Quantità di anidride carbonica generata per produrre una porzione alimentare.

Si tratta di terreni non adatti al pascolo, nelle zone tropicali lo strato superficiale del suolo, ricco di nutrienti, è molto sottile e fragile. Dopo pochi anni il suolo diventa sterile e gli allevatori passano ad abbattere un’altra area di foresta. Generalmente gli alberi abbattuti non vengono commercializzati, risulta infatti conveniente bruciarli sul posto.

In merito si è espressa nel 2019 anche l’agenzia italiana ISPRA (Istituto Superiore per la Protezione e la Ricerca Ambientale): “L’allevamento del bestiame è responsabile dell’80% della deforestazione in corso nella foresta pluviale amazzonica. Una parte significativa dell’offerta globale di carne bovina, compresa gran parte dell’offerta di carne in scatola in Europa, proviene da terreni che un tempo erano la foresta pluviale amazzonica.”

Il terreno, non più protetto dalla vegetazione è più soggetto a frane ed inondazioni, ma anche alterazioni idrogeologiche, con esaurimento delle falde acquifere che non riescono a rigenerarsi e siccità ricorrenti. Nelle zone semiaride Le Nazioni Unite stimano che il 70% dei terreni ora adibiti a pascolo siano in via di desertificazione.
Gli studi sono ormai tantissimi e le organizzazioni sovranazionali si sono espresse in merito diverse volte, spesso con poca eco da parte dei media, inascoltate dai governi e lasciando i cittadini completamente ignari. Nel 2010 nel report dell’UNEP (United Nations Environmental Programme) Calcolo degli impatti ambientali dei consumi e della produzione, si sottolinea con forza come il consumo di alimenti animali carne, pesce, latticini sia una delle cause primarie di impatto ambientale, inquinamento, effetto serra e spreco di risorse. Viene affermato che “In confronto ai processi industriali, i processi produttivi in agricoltura hanno intrinsecamente una bassa efficienza nell’utilizzo delle risorse, il che rende la produzione di cibo, fibre e biocarburanti tra i processi più inquinanti. Questo è vero specialmente per i prodotti animali, in cui il metabolismo degli animali è il fattore limitante. Una gran parte dei raccolti nel mondo sono usati come mangime per gli animali, e ci si aspetta che questa proporzione aumenti ulteriormente entro il 2050”.

Il report si conclude con le seguenti affermazioni “Si prevede che gli impatti dell’agricoltura aumentino in modo sostanziale a causa dell’aumento di popolazione e del conseguente aumento del consumo di alimenti animali. Una riduzione sostanziale di questo impatto sarà possibile solamente attraverso un drastico cambiamento dell’alimentazione globale, scegliendo di non usare prodotti animali”.

Negli anni l’IPCC (Intergovernmental Panel on Climate Change) ha più volte ribadito l’importanza della diminuzione dei consumi di carne, nel report del 2019 si afferma: “Le diete sane e sostenibili, come quelle basate sui cereali, legumi, verdura, noci e semi, offrono le maggiori opportunità per ridurre le emissioni di gas serra”. Secondo l’IPCC i tentativi di risolvere la crisi climatica riducendo le emissioni di anidride carbonica solo da auto, industrie e centrali elettriche sono destinati al fallimento, mentre è essenziale modificare i consumi alimentari e la gestione del territorio.

I ricercatori della Carnegie Mellon University, in uno studio pubblicato sulla rivista scientifica Environmental Science and Technology, dichiarano che il fattore cibo sia il più impattante sull’ambiente, quando si parla di scelte personali e slegate da atti istituzionali, impatto secondario anche al fatto che: tutti mangiano più volte al giorno. Infatti dipende da una scelta personale e non dalla disponibilità di infrastrutture o leggi specifiche, come accade invece per l’energia rinnovabile, si può applicare immediatamente, senza necessità di dotarsi di particolari mezzi o attrezzature.

Una transizione, anche solo parziale, verso un’alimentazione basata sui vegetali risulta essere la scelta più potente e più facile da mettere in atto al fine diminuire in modo considerevole il nostro impatto ambientale.

Bibliografia essenziale e siti per approfondimento

FAO. (2006). “Livestock impacts on the environment. Livestock’s Long Shadow: environmental issues and options”.
McMichael, A.J., John W Powles, J.W., D Butler C.D., Uauy, R. (2007). “Food, livestock production, energy, climate change, and health”. The Lancet 370(9594): 1253–1263.
Mekonnen, M.M. and Hoekstra, A.Y. (2010). “The green, blue and grey water footprint of farm animals and animal products”. Value of Water Research Report No. 48, UNESCO-IHE, Delft, the Netherlands.
Poore, J., Nemecek, T. (2018). “Reducing food’s environmental impacts through producers and consumers”. Science 360(6392): 987–992.
Tilman, D., Clark, M. (2014). “Global diets link environmental sustainability and human health”. Nature 515(7528): 518–22.
UN Environment Programme: https://www.unep.org/

* Dott.ssa Denise Filippin
Biologa nutrizionista
Libera professionista in Genova

[Articolo contenuto in Rene&Salute Anno XXXV – Dicembre 2020 – n. 3/4, pp. 12-14]