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Intervista al presidente della società italiana di nefrologia

a cura di Diana Zarantonello

Intervistiamo il dottor Giuliano Brunori, Presidente SIN, nonché Primario del Reparto di Nefrologia e Dialisi dell’Ospedale S. Chiara di Trento.

Buongiorno Primario, com’è cambiata l’organizzazione del Reparto e della dialisi da quando è insorta l’emergenza Covid-19?

È cambiata radicalmente. Fin dall’inizio i dati che provenivano soprattutto dalla Lombardia, investita prima di noi da questo Tsunami, ci hanno fatto capire che eravamo di fronte a un problema estremamente importante, soprattutto per i pazienti in emodialisi che sono stati pertanto i primi a essere interessati da provvedimenti organizzativi volti a evitare la diffusione del contagio. Pertanto per prima cosa abbiamo diffuso ai pazienti emodializzati una lettera nella quale erano invitati a segnalare, mediante contatto telefonico con il nefrologo, l’eventuale insorgenza di sintomi sospetti (come febbre, tosse, mancanza di respiro). Questo per evitare che un paziente con tali sintomi prendesse il mezzo di trasporto (spesso condiviso con altri pazienti) e arrivasse nel centro dialisi, facilitando la trasmissione dell’infezione.

Oltre a questo screening a domicilio, abbiamo messo in atto un ulteriore controllo all’ingresso in dialisi, dove gli infermieri chiedono al paziente se ha sintomi e misurano la temperatura corporea. In caso di presenza di sintomi il paziente viene inviato in Pronto Soccorso per eseguire il tampone per la ricerca del Covid-19.

Grazie a queste misure, oggi, che è il 15 aprile, abbiamo avuto solo 4 persone risultate positive tra i nostri 220 pazienti emodializzati. La metà di questi pazienti risiedeva in RSA che, come abbiamo visto, hanno rappresentato importati focolai epidemici anche nella nostra regione. Gli altri 2 pazienti provengono dalle valli che sono state maggiormente interessate dall’infezione (Valli Giudicarie e Valle di Fiemme e Fassa), avendo vissuto una notevole pressione turistica.

Al momento nessun contagio è avvenuto all’interno dei centri di emodialisi. I pazienti risultati positivi, dovendo proseguire il trattamento dialitico, che è salvavita, sono stati ricoverati nel nostro Reparto, che, a tal scopo, è stato riadattato per metà al ricovero di pazienti infetti. In una di queste stanze di degenza abbiamo predisposto una macchina da dialisi con una mini-osmosi per il trattamento dell’acqua, per dializzare i pazienti ricoverati, che dovevano stare isolati. Gli infermieri deputati a effettuare la dialisi, dovendo portare i presidi di protezione individuale (tuta idrorepellente, mascherine ffp2, occhiali, cuffia e guanti) e dovendo stare tutto il tempo in una stanza di piccole dimensioni, avevano necessità di avere un cambio a metà seduta. Pertanto è stato necessario avere un impegno non indifferente del personale infermieristico per gestire i pazienti ricoverati, così come quelli ricoverati in rianimazione che abbiamo dovuto sottoporre a dialisi. A tal scopo diversi infermieri dei centri dialisi periferici si sono spostati temporaneamente nella sede di Trento. Approfitto dunque di questo spazio per esprimere il mio sentito grazie a tutti gli infermieri che si sono prodigati in questa impegnativa attività.

Abbiamo letto che il modello trentino di gestione dei pazienti dializzati è stato preso come riferimento anche dai colleghi d’oltreoceano (Boston e Brasile): ci dice qualcosa di questi interventi che ha tenuto?

A metà marzo sul Journal of Nephrology, come Società Italiana di Nefrologia abbiamo pubblicato il primo report del mondo occidentale sulle manovre da utilizzare per prevenire la diffusione dell’infezione nei centri dialisi. Probabilmente trattandosi del primo report non cinese, esso ha colpito i colleghi americani di Boston, della Harvard University, in particolare il Prof. Joseph Bonventre che mi ha contattato per chiedermi di tenere un “renal grand round”, cioè una lezione di aggiornamento su questo argomento. Invece tra i soci della Società Nefrologica brasiliana c’è il Dr. Josè Divino, che mi ha chiesto di tenere un aggiornamento simile insieme ad Angela Whang dell’Università di Hong Kong, per avere un’idea dell’esperienza cinese e italiana e attrezzarsi di conseguenza per rispondere a questa emergenza. Entrambe le lezioni ovviamente si sono tenute con una videochiamata, metodo assai economico e veloce, senza necessità di spostamento.

Sappiamo che ha collegamenti anche con l’Africa, e più precisamente con il Mali, dove annualmente va a dare supporto nell’allestire fistole per emodialisi. Com’è lì la situazione?

I dati che ho, sia dal Mali che dal Ghana, sono positivi. I tassi di infezione sono estremamente bassi, e probabilmente questo fatto dipende dalle alte temperature che si registrano in quelle terre, che contrastano la sopravvivenza del virus nell’ambiente. L’arrivo dell’estate potrebbe aiutare anche l’Italia a uscire da questa epidemia, come teorizzato da diversi esperti.

Come si è mossa la Società Italiana di Nefrologia nel promuovere un atteggiamento uniforme di tutte le nefrologie e dialisi della penisola, di fronte a questa situazione, mai vista prima?

Come SIN abbiamo cercato di raccogliere subito, da parte dei centri più colpiti dalla patologia, soprattutto del nord Italia (Cremona, Bergamo, Lodi, Brescia, Milano, Piacenza) le indicazioni per gestire i pazienti Covid e le abbiamo poi trasferite in documenti che sono stati inviati tramite e-mail a tutti i soci e messi a disposizione in un box nel sito della SIN, regolarmente aggiornato. Abbiamo recepito anche le indicazioni internazionali che via via emergevano, adattandole alla nostra realtà, basata su un sistema sanitario pubblico che gestisce tutte le problematiche sanitarie, mentre altre realtà hanno centri dialisi privati. Per quanto riguarda alcune realtà del sud Italia, come Campania e Sicilia, dove c’è una forte presenza di centri dialisi privati, assieme ai nefrologi di quelle regioni, abbiamo stilato documenti specifici. Abbiamo anche scritto una lettera indirizzata all’Istituto Superiore di Sanità per ribadire che i pazienti dializzati (45.000 persone) hanno bisogno di attenzioni particolari perché effettuano accessi obbligati in Ospedale.

Una domanda personale: come è cambiata la sua vita lavorativa e privata in queste settimane?

La sera dell’8 marzo, quando si prospettava la chiusura totale delle mobilità, ho preferito partire subito da Brescia (dove risiede con la famiglia, N.d.R.) e fermarmi a Trento, dove sono poi restato per più di un mese consecutivo. Quindi ho vissuto una vita più solitaria, dedicata totalmente al lavoro. Prima, durante la settimana, andavo a trovare mio figlio a Rovereto e il fine settimana ritornavo a Brescia. Tuttavia è stato anche un momento di soddisfazione perché ho condiviso con tutto il mio personale, medici e infermieri, questo difficile momento. Per fortuna, grazie alle videochiamate, sono riuscito a vedere, almeno a distanza, i miei famigliari e i miei nipoti, e questo ha reso meno difficile lo star lontano da casa.

Cosa si aspetta e cosa invece si augura per il futuro?

Mi aspetto che questa pandemia finisca e che arrivi un vaccino, che possa metterci in sicurezza rispetto alla situazione attuale. Mi auguro inoltre che questa esperienza sia un insegnamento che ci rimanga per il futuro. Questa emergenza risulta infatti del tutto peculiare, rispetto alle emergenze “naturali” legate a esondazioni, terremoti, ecc., non essendo limitata a un luogo, ma fluida e imprevedibile, e richiedendo risposte pronte e incisive. L’altra cosa che mi auguro è che il ruolo del personale sanitario, medici, infermieri e operatori socio sanitari, servizio trasporti, 118, non venga elogiato ora come eccezionale, ma venga riconosciuto quotidianamente anche al di fuori di questa emergenza, con rispetto e riconoscenza, per quello che facciamo e abbiamo sempre fatto nell’interesse dei nostri pazienti.

Grazie molte per la preziosa testimonianza, sperando di poterla rivedere, di persona, al Congresso Nazionale della SIN a Riva del Garda, il prossimo ottobre.

[Articolo contenuto in Rene&Salute Anno XXXV – Novembre 2020 – n. 1/2, pp. 2-3]